Qualche settimana fa ricordavo come alcuni musicisti/intellettuali non di primissimo piano, ma molto attivi nei decenni centrali del Novecento, come Gianandrea Gavazzeni, siano forse ingiustamente caduti nell’oblìo, e trascurato il valore del loro operato culturale e della loro riflessione estetica.
Oggi
leggo un suo breve saggio del 1966 (nel libro “Non eseguire Beethoven, e altri
scritti”) nel quale, occupandosi delle opere di Ildebrando Pizzetti, coglie
l’occasione per esprimere perplessità circa la temperie culturale del
Dopoguerra e l’egemonia del pensiero “d’avanguardia”. Ne estraggo alcuni passi:
“L’ultimo
dopoguerra pone problemi inquieti, difficili e contradditori. Il processo é
ancora in atto e non varrebbe ripercorrerne oggi l’istruttoria. La revoca in
dubbio cominciò allora, e investì
i maggiori musicisti compresi
nella “generazione dell’80”. Perfino colui che pareva incombustibile,
Stravinsky, venne drammaticamente implicato nella polemica adorniana.
I
moduli sociologici vollero sostituirsi ai parametri estetici, portando avanti
idee e metodi già cari al positivismo passato. Proprio l’estetica dei valori fu
data per morta; involgendo ogni rapporto tradizionale dentro l’agonia della
cultura borghese. Mentre ancor oggi, dopo vent’anni da quelle saghe, non é stabilito con qualche garanzia sicura
se codesta agonia sia davvero una realtà –estetica e sociale– o non piuttosto
un luogo retorico comodamente
maneggevole.
Non sembra poi, dopo un ventennio,
che la tentata cancellazione della “generazione dell’80” abbia dato la stura a tali capolavori e a tali sorprese di linguaggio, di poetiche, da giustificare l’avventatezza e
rapidità del procedimento giudiziario (.....) Quanto alla “ nuova musica” o
“neoavanguardia”, la partita é
troppo aperta... senza tralasciare l’ipotesi che musica, pseudomusica,
come categoria utilitaria, o commestibile, sia del tutto inutile e
nient’affatto necessaria all’uomo civilizzato contemporaneo.. Leggo in
questi giorni la raccolta di un critico d’arte e
poeta di colta finezza (....) Alessandro Parronchi- Pregiudizi e libertà
dell’arte moderna; il suo rapporto sulla pittura recente, sui vizi e le
volontarie distruzioni, offre esatto parallelismo alla situazione musicale, con la coraggiosa difesa di un
mondo falsamente dato tutto per morto, ancora attivo in una realtà
della vita spirituale odierna e delle sue necessità. (....) La possibilità che
il nostro singolo giudizio sia errato dà il continuo movimento alla vita musicale del nostro spirito.
Proprio la revoca in dubbio costituisce uno stimolo operativo incessante. Soltanto
l’odierno irrazionalismo non ha dubbi che certi montaggi rumoristici appartengano all’assoluto del valore artistico o della liceità
sociologica.”
Fin
qui, la pungente sortita di un Gavazzeni garbato polemista che rivendica il
diritto al pensiero e al giudizio autonomo contro l’egemonia del “modernismo”.
I passi sono troppo brevi per dedurne un pensiero articolato, ma la sua
posizione interlocutoria emerge
chiara; e ancora più chiara sarà per chi
volesse leggere tutti i suoi
scritti, nei quali si
occupa spesso di autori quali Boito, Catalani, Pizzetti, e molti altri oggi
quasi caduti nell’oblìo.
Queste poche righe di Gavazzeni mi
hanno fatto pensare che noi abbiamo
un problema: in particolare i musicisti nati all’incirca nel ventennio 1950-1970 sono
cresciuti in un clima culturale pieno di fermenti e di novità: la “riscoperta”
di Mahler, Bruckner e della Seconda scuola di Vienna, l’emergere delle ricerche
filologiche sulla musica antica. Ma sopratutto, la presenza egemone del pensiero “progressista” (all’epoca
non si chiamava ancora così) che tracciava da un lato nella musica strumentale
una linea diretta Beethoven-Mahler-Schoenberg-Webern per arrivare senza
soluzione di continuità a Stockhausen- Boulez- Nono- Berio & c., saltando
tutto quello che c’era in mezzo (tranne Stravinskij, oggetto però sovente di
giudizi oscillanti e dubitosi) e considerandolo fenomeno marginale, attardato,
storicamente irrilevante; e dall’altro in quella del teatro musicale
Verdi-Puccini-Berg-ancora Stockhausen-Nono & c.
Ovviamente, questa linea culturale
ha una sua legittimità: ma non era l’unica possibile, nè l’unica esistente.
Più
passa il tempo, più si fa evidente la lacuna della quale siamo vittime tutti,
in particolare le generazioni 1950-1970: aver tagliato fuori dalla storia della
musica del Novecento – italiano, in particolare- un buon numero di autori che
hanno avuto un innegabile valore autonomo, pur non rispondendo ai canoni
estetici prevalenti, e la cui rivisitazione e frequentazione (non dico
rivalutazione, perché il giudizio non può che essere personale) oggi potrebbe
utilmente aiutare a ricostruire il passaggio che manca tra le ultime propaggini
del romanticismo e quella galassia variegata e instabile che viene
collettivamente denominata “musica contemporanea”, intendendo con ciò la musica
colta della seconda metà del Novecento nel nostro paese.
E’
ora di dare retta a Gavazzeni, uscire dal prisma interpretativo obbligato nel
quale siamo cresciuti, e allargare il nostro sguardo attento a un patrimonio di musiche italiane immeritatamente marginalizzate, forse
non generose di capolavori indimenticabili ma imprescindibile per completare,
pur con le debite luci e ombre, l’autoritratto di una nazione, e cogliere anche
la ragione per la quale ancora oggi (r)esiste, a dispetto del mainstream
istituzionale, un folta schiera di compositori che si riallaccia a linguaggi,
estetiche, stili anteriori e/o alternativi a quello dell’ avanguardia “istituzionale”.
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